C’è una riforma a costo zero che aiuta chi perde il lavoro
di Alberto Sportoletti
“In una società il disoccupato è un uomo che soffre un attentato grave alla coscienza di sé stesso: è in condizioni tali per cui la percezione dei suoi valori personali risulta sempre più annebbiata” (Don Giussani, Il Senso Religioso, p. 47, Rizzoli): è un dato evidente per chi ha vissuto la disoccupazione o per chi incontra frequentemente persone disoccupate che, senza l’impegno con la realtà implicato nel lavoro, l’uomo tende a smarrire la percezione delle proprie capacità e dei propri talenti ed è molto più difficoltosa la scoperta dei fattori umani che lo costituiscono.
Crescono così i sentimenti di frustrazione e rassegnazione, se non di vera e propria depressione, che rendono ancora più difficile la ricerca di un nuovo lavoro avvitando la persona in un circolo vizioso di non facile soluzione: lo scoraggiamento e l’appiattimento del desiderio diventano una minaccia al reperimento di un impiego più grande della stessa crisi economica o della scarsa attrattività del nostro mercato del lavoro.
Certo, si obietterà non senza ragione: il lavoro stesso può essere frustrante e, in alcuni casi alienante, senza bisogno di scomodare Karl Marx, sia per condizioni esterne che, innanzitutto, per eccessiva passività o eccessivo coinvolgimento del lavoratore. Ma per scoprire la necessità di viverlo con una domanda viva di significato è pur indispensabile essere impegnati col lavoro. Il valore del lavoro non è dunque solo legato al suo risvolto economico, pur importante, ma alla possibilità stessa di realizzazione della persona.
Tale considerazione, che emerge con evidenza dall’esperienza di ciascuno, non è per nulla scontata nelle politiche che hanno regolato le relazioni industriali spesso in una logica di contrapposizione ideologica tra parti sociali, in cui domina una riduzione economicista del lavoro e quindi del lavoratore. Le crisi che ci hanno colpito negli ultimi anni e i cambiamenti globali del mercato del lavoro ci stanno costringendo a riconoscere gli enormi limiti di questo approccio alle politiche passive e anche a quelle attive sul lavoro.
Anche le diverse proposte di legge presentate in Parlamento, pur presentando diversi spunti di miglioramento, non sembrano essere completamente rispondenti all’esigenza umana, individuale e macro-economica insieme, di favorire al massimo la continuità occupazionale della persona come istanza prioritaria rispetto a qualsiasi altra.
Come sempre accade, più che le disquisizioni normative e accademiche, ci vengono in aiuto esperienze reali in atto che implicano, di fatto, un giudizio culturale e un metodo nuovo ed esemplificano risultati più efficaci del passato. Uno fra gli altri è il caso della recente vertenza Indesit riguardante la chiusura degli stabilimenti di Brembate di Sopra (Bg) e Refrontolo (Tv): il caso sta già facendo scuola (lo stesso ministro Sacconi lo ha definito, in una recente intervista, un modello da perseguire di accordo tra le parti sociali e di gestione delle ristrutturazioni) ed è stato già ripreso in altre situazioni di ristrutturazioni aziendali, pur essendo stato messo in ombra mediaticamente dal caso Fiat
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