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Con Flat Tax e senza equo compenso gli studi professionali organizzati diventano carne da macello?

Man jump through the gap. Element of design.


Si potrebbe salutare con gioia la flat tax per le partite IVA al 15% fino a 65 mila euro di fatturato. La questione deve però essere analizzata in un contesto di impoverimento generale delle professioni intellettuali, di una concorrenza spietata dove vi è un forte squilibrio tra la domanda e l’offerta e dove competenze e qualità del servizio incidono in modo sempre più marginale nelle scelte del mercato.

In realtà, dunque, l’iniziativa della flat tax non sostiene i principi di un equo compenso universale, ma introduce un elemento distorsivo nel mercato professionale, spostando l’asticella della low tax area ad una quota di professionisti assolutamente importante, in grado di incidere sulle regole del mercato professionale. E’ come se il governo avesse elevato la quota dei freelance rispetto agli studi organizzati, discriminando coloro che, avendo scelto di organizzare il servizio, non possono rientrare nei 65 mila euro. In sostanza questa nuova fiscalità, che non è progressiva, ma considera due regimi fiscali concorrenti, realizza una disuguaglianza sostanziale che non può che riflettersi sulla parità di accesso al mercato, violando i più elementari principi del diritto. Il calcolo è banale: per avere un reddito netto equivalente al collega forfettario che fattura 65 mila euro, il collega in contabilità ordinaria ne deve fatturare 85 mila, sempre che abbia la stessa quota di spese di studio. In sostanza vi è un’alea di 20 mila euro di fatturato, che nella libera professione non è programmabile e costituisce un evento imprevedibile, che comporterà scelte a tavolino distorsive sul periodo di fatturazione, se va bene, oppure con proventi irregolari per garantire una sostanziale parità del diritto ad avere il medesimo reddito netto.
Viceversa, si può scegliere di ribaltare sul mercato la questione, sviluppando un vero e proprio dumping sociale, ovvero applicando tariffe più concorrenziali per acquisire più facilmente le commesse impostando un reddito “normalizzato” garantito pari a 65 mila euro. Dunque, si avrebbe un reddito garantito per legge, mettendo ancora una volta un professionista contro l’altro a scannarsi a tutto vantaggio di committenti ancora più forti ed insaziabili. In ogni caso, chi oggi opera come studio professionale, organizzandolo con logica imprenditoriale, con un reddito lordo superiore ai 100 mila euro, non potrà che costituire una srl che operi utilizzando partite IVA forfettarie azzardando investimenti per crescere ad ogni costo. Tutto ciò per riuscire a mantenere una minima attitudine concorrenziale.
I precedenti ragionamenti possono considerare un punto di vista differente, più orientato a condizionare il mercato, se si considera che al crescere del fatturato crescono necessariamente le spese per svolgere l’attività. Dunque, evidentemente, come detto in precedenza, il governo considera freelance i professionisti fino a 65 mila euro e studi professionali veri e propri quelli con fatturato superiore. Seguendo questa logica, e dunque innalzando la consistenza di un freelance da 30 mila a 65 mila euro, è necessario che il mercato remuneri adeguatamente gli studi professionali strutturati, con competenze plurime e multidisciplinari. Questo approccio deve però confrontarsi con analisi realistiche del mercato, sia di quello pubblico che di quello privato, verificando un modello di crescita delle strutture che sia effettivamente sostenibile e favorisca l’aggregazione delle competenze invece di perseguire la disgregazione e la polverizzazione professionale. Su questo fronte occorre rilevare come il tema dei tempi di pagamento dei clienti privati e pubblici e la selezione degli affidamenti operata attraverso criteri sempre più esclusivi, inducano a non essere ottimisti sulla scelta di creare strutture onerose e con vincoli interni rigidi. La reintroduzione dei tariffari, come in altre parti di Europa, e dunque la definizione dell’equo compenso, rappresenta l’unico strumento di riequilibrio che il governo dovrebbe considerare.
In conclusione, sono difficili da interpretare le conseguenze reali della politica fiscale sulle attività professionali. Tali politiche appaiono estemporanee e prive di un’analisi reale del settore, incuranti delle dinamiche sul mercato e potenzialmente incuranti di poter generare aree di privilegio ostili ad un effettivo miglioramento sistematico e dunque organico, con particolare riferimento a quel ceto medio professionale, spina dorsale della nostra società, che ancora una volta viene pericolosamente messo alla prova.

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